Alluminio

2516, Richleaf, Maracay
Le urla del bambino spezzano il velo di immobilità che copre la casa di Las Rosas, avvolta in una patina di aria umida resa sempre meno sopportabile mano a mano che la primavera di Richleaf alza le temperature e le larve delle zanzare delle paludi circostanti si schiudono in sciami di insetti desiderosi di sangue. La voce profonda e baritonale di Shombay scuote le pareti sottili della costruzione affollata. "Shanette! SHANETTE!" Le imprecazioni in uno spagnolo che Lucian fa fatica ad intendere attraversano i corridoi, sempre più udibili e nitide mano a mano che il robusto petto del capofamiglia si fa strada fino alla fonte di quelle grida che interrompono brutalmente l'ora del riposo pomeridiano. "Shanette! Che San Miguel se la porti via, dove cazzo è finita?" Le mani larghe e pesanti del trombettista si avvolgono intorno al grumo di carne di sette mesi che Sergio si è lasciato alle spalle prima di farsi rinchiudere in galera. Il piccolo corpo sobbalza sulla sua spalla ad ogni colpo del palmo oramai esperto, tanto deciso nel dettare le regole della casa quanto delicato con quel corpo fragile. Quando compare sulla soglia della piccola cucina l'espressione si irrigidisce quasi automaticamente nel momento in cui registra la presenza di Lucian, seduto al tavolo, intento a leggere il quotidiano che riporta con una settimana di ritardo le notizie dal resto del 'Verse. Il diplomatico di Agatha è diventata una presenza incostante nelle settimane passate. Passa le giornate in giro con l'unica donna di casa e compare sporadicamente seduto al tavolo della cucina o appoggiato al muro esterno della casa, intento a fumare ed a parlare con la gente del quartiere o con il giovane Gabriel, artista eccentrico della famiglia. Torna sempre la sera, non tanto per dividere la stanza con Shannon e sfruttare qualche ora di sonno, quanto per evitare l'esito scontato che avrebbero le sue passeggiate notturne in giro per la periferia della capitale. Si è mescolato abbastanza bene con la gente del quartiere da risultare una presenza invisibile e poco ingombrante, per tutti tranne che per il robusto negro che lo fissa ora nel silenzio imposto dal sonno difficilmente conquistato dell'infante. Lo sguardo di Shombay non è apertamente ostile, ma abbastanza diffidente da far sospettare che possa leggere al di là della maschera di naturalezza di Lucian. Gli sbatte davanti agli occhi una tazza piena di caffè fumante, il suono del metallo contro il legno del tavolo costringe il diplomatico a stringere gli occhi per un secondo per ammortizzare l'impatto contro i timpani. "Gracias". "You ain't gonna be trouble for my girl, are ya?" Il sapore del caffè si mescola con quello pungente dell'alluminio che si discioglie ogni secondo nella bevanda calda. "No Sir." "Good." La conversazione si evolve col passare dei giorni, ma non durerà mai più di un paio di battute. Il resto lo fanno le occhiate. Si tengono d'occhio come i cani e Lucian sta attento a non alzare la coda né a raschiare il terreno col muso. Tenere lontano il conflitto durante il suo soggiorno è quasi parte di un esercizio di diplomazia. Poi arriva una sera in cui ogni cura ed attenzione passa in secondo piano rispetto all'efficacia di una sbronza comune a base di rhum.